Salute
Affrontare la sordità

Per la costruzione di una personalità sana ed equilibrata il metodo educativo è estremamente importante. Il rispetto della particolare individualità è un prerequisito fondamentale allo sviluppo delle abilità, soprattutto quando esse sono ‘diverse’. Lasciare aperte le porte a svariati approcci significa accogliere la vita nel suo divenire mutevole.
Ogni metodo rigido rischia di tagliare gemme turgide di potenzialità.
Un figlio, sano, bello, responsivo…
Ma all’improvviso qualcosa inizia ad andare storto: forti rumori e richiami non sfiorano il piccolo che pare iniziare a vivere in un mondo tutto suo.
E in seguito la diagnosi: sordità.
Il mondo che crolla addosso: la negazione prima, poi la rabbia, spesso una spirale di tristezza che può portare alla depressione.
Cos’è successo? Com’è stato possibile?
La reazione alla diagnosi di sordità in un bambino, anche se effettuata in epoca prenatale, anche se oggi il fenomeno può beneficiare di una molteplicità di interventi (logopedia, protesi, impianti cocleari, logogenia, sostegno specializzato scolastico ed extrascolastico, musicoterapia…), continua ad essere lo sgomento.
L’urgenza dell’intervento atto ad allontanare lo spettro della mutolezza ha bisogno di impegno e decisione, non ammette indugio.
Il percorso, qualsiasi esso sia, richiede un ingente uso di buona volontà, ed ogni battuta d’arresto ha un impatto esponenziale.
Tale fretta origina dal fatto che i primi anni di vita sono fondamentali per l’acquisizione della lingua.
La lingua è la forma privilegiata attraverso cui i membri della nostra specie entrano in contatto con i propri simili, scambiano informazioni che consentono la crescita e soddisfano i bisogni di relazione.
Ed è anche la struttura che permette di dare un senso alle esperienze personali, a iniziare da quelle corporee, tipiche dei primi anni di vita, fino a quelle più astratte e del pensiero ipotetico-deduttivo.
Il sordo continua a vivere tra udenti e con loro deve interagire nella quotidianità, che lo voglia o no.
Per questo ha necessità di apprendere, con o senza la Lingua dei segni, la lingua orale, anche se è una seconda lingua, anche se il senso viene appreso con difficoltà vista la carenza di feedback uditivi che consentano l’autoregolazione, anche se il processo non è facilitato dal supporto del bagno di stimoli sonori.
Il ‘lavoro’ del sordo per il suo arricchimento linguistico deve continuare, pena l’impoverimento innanzitutto degli strumenti comunicativi utili allo scambio sociale.
La strada dell’’abilitazione’ non è però così univoca come appare di primo acchito.
Per anni (forse secoli), una volta superata l’abitudine di rinchiudere i sordi in manicomio e presa coscienza della possibilità di cambiare un destino ineluttabile, i difensori dell’oralismo (educazione dei sordi alla sola lingua orale) e quelli del Segno (educazione dei sordi al solo uso della Lingua dei segni) si sono fronteggiati in un duello che perdura ancora oggi, dove il metodo bimodale (educazione sia alla lingua orale che a quella dei Segni) è stato riconosciuto vincente a livello internazionale.
Come mai accade questo?
Accade perché dietro al tipo di lingua utilizzata, sia essa quella orale o quella dei Segni, vi sono significati plurimi che spaziano dal senso di identità, a quello di appartenenza, alle forme e dinamiche familiari e sociali.
Spesso la foga dell’azione dei primi anni ha lasciato dietro di sé, inascoltati, dei ‘residui’ non riconosciuti né elaborati che, come accade in questi casi, si manifestano in forme lontane da quelle originarie.
Alcune ricerche hanno evidenziato come genitori sordi di bambini sordi, reagiscano con maggiore ottimismo alla diagnosi di sordità del figlio, e questo ha un impatto sulle modalità educative e relazionali che si innestano.
Se teniamo presente quale ripercussione psicologica abbia su un bambino la depressione di un genitore o una comunicazione ambivalente, ecco che appare evidente l’importanza di un accompagnamento consapevole di tutte le parti implicate con il piccolo sordo.
L’errore in agguato è quello di dimenticare che il sordo che sta di fronte non sente ed ha bisogno di vedere per mantenere la comunicazione e dotare di senso la realtà che lo circonda, ma l’errore ancora più grande è dimenticare di ‘ascoltare’ quello che ha da comunicare.
Accade di sentir dire ad alcuni genitori ‘se avessi scelto la lingua dei segni’, oppure ‘se l’avessi inserito in una scuola speciale’, o anche ‘se avessi scelto l’integrazione’… Rimpianti e rimorsi che si basano sul senso di fallimento e di inadeguatezza che spesso affonda le radici nel mancato passaggio dal ‘bambino immaginario’ (quello costruito dalle fantasie coscienti sul bambino in gravidanza) a quello reale.
Vi sono genitori che rifiutano al proprio figlio sordo l’uso della lingua dei segni negandone le fertili potenzialità, o genitori che assumono la stessa lingua come l’unica in grado di dare dignità alla persona sorda.
Come accade spesso la risposta migliore è nella flessibilità.
L’uso della Lingua dei segni permette l’acquisizione della funzione linguistica prima che il piccolo sia in grado di usare la lingua orale e non impedisce di fatto che quest’ultima sia utilizzata con successo.
Parimenti una protesi o un impianto cocleare difficilmente trasformeranno un sordo in un udente, ma l’aiuto che possono dare è sicuramente importante laddove vi siano i presupposti di un siffatto impegno.
Vale certo la pena aprire la mente alla possibilità di beneficiare di tali ausilii senza cadere nell’errore opposto di un’aspettativa magica, o nella rinuncia alla propria lingua naturale.
Per questo è estremamente importante fare un bilancio diagnostico che tenga in considerazione la complessità del sistema e la peculiarità dei singoli individui che lo compongono.
È importante ascoltare ed accogliere il disorientamento, le perplessità ed i dubbi di un genitore, ricordando che non vi sono interventi ‘migliori di altri in assoluto’, e tutto ciò che si può fare per l’equilibrio del piccolo sordo e della famiglia stessa deve essere preso in considerazione, senza che ciò implichi una scelta di campo totalizzante.
I centri di (ri)abilitazione più adeguati sono quelli che non antepongono il metodo alle persone reali che si trovano di fronte, ed i professionisti di maggiore successo si sono trovati, prima o dopo nel loro percorso lavorativo, a contemplare l’uso di una tecnica diversa ma adatta al nuovo ‘caso’ che non beneficia del ‘trattamento standard’.
Può essere utile mantenere chiaro in mente il concetto di ‘benessere’ un termine che condensa in sé il senso dell’obbiettivo da raggiungere che è quello di porre l’individuo nelle condizioni di vivere una vita in linea con le inclinazioni, i talenti, le potenzialità e (com’è nel suo diritto) i limiti, con cui è venuto al mondo.
Della famiglia in prima battuta, ma anche del piccolo sordo che, una volta divenuto adulto, sarà tanto più in grado di raggiungere l’autonomia, quanti più strumenti consoni avrà potuto acquisire nella sua fase evolutiva.
Bibliografia
Russo Cadorna T., Volterra V., Le lingue dei segni, ed. Carocci, 2007
Rossi Daniela, Il mondo delle cose senza nome, ed. Fazi, 2004
Laborit E., Il grido del gabbiano,